Gesta di Brigastio – Canto Ottavo

Brigastio giace – per chi lo ricorda –
Tra le braccia fraterne di Corvino
E, come l’arco dalla molle corda
Che fa cader la freccia lì vicino,
Seppur lo spirito non gli demorda,
Ha meno forze ormai d’un topolino
E già porge la mano sua alla Morte
Come a una dama a cui si fa la corte.
E proprio mentre al lume della mente
Seguiva il buio del fatal riposo,
S’udì una porta aprirsi lentamente,
Dei passi lievi nel salon petroso
E una vocina dir timidamente:
«Ser Cavalier, scusatemi s’io oso
Di domandar se non vi serva aiuto
Pel vostro amico quasi deceduto…»
Era la dolce e musical favella
– In stile opposto alla cruenta scena –
Di quella leggiadrissima pulzella
C’ha gli occhi belli e la boccuccia amena,
Ossia della famosa Mirabella,
Imprigionata in quella grotta oscena
Da Cuordipietra il rigido tiranno,
Che s’attirò con ciò’l più grave danno.
La fanciulla avea trascorso il giorno
Interamente in una grande angoscia,
Da poi che le fantesche ch’avea intorno
Udito il sire aveano dire: «Poscia
Che fatto s’abbia il buio il suo ritorno,
Mi gusterò col petto anche la coscia
Come contorno a quella cosa bella
Della mia buona moglie Mirabella!»
Sicché, quando sentì che cento armati
Riempivano il salone oltre le porte,
La damigella li pensò chiamati
Nella pugna d’amore a dar man forte,
E disperava di scampar gli agguati,
Né più sfuggir poter credea tal sorte,
Ma stette alquanto come e se dubbiando
Dell’umana natura porsi in bando.
Ma poi che udì gli eroi gridar «Giustizia!»
E i suoni della guerra rintronare,
Pensò che il tempo della sua mestizia
Magari si poteva rimandare,
E dunque con docilità e dovizia
Si pose trepidante ad osservare
Dal buco della grossa serratura
Il cozzo tra la spada e l’armatura.
Poi, quando si fu spento il gran duello
E terminò nel sangue la mattanza,
La figlia del menato Mirabello
Uscì prudentemente dalla stanza
E procedette cauta nel macello,
Cercando, con perizia ed eleganza,
Tra i cor trafitti e le spaccate teste,
Di non sporcarsi l’orlo della veste;
Come poi fu d’appresso a’ due compagni
E vide ch’uno a mal partito stava,
Offerse aiuto a quegli spirti magni
Dicendo: «In quella stanza dove schiava
Mi tenne con propositi grifagni
Quello a che deste quanto meritava,
Posseggo, per ragioni da non dire,
Antidoti ed unguenti a non finire.»
Allor si mosse e con le belle mani,
Selezionati tutti gli ingredienti,
Li unì secondo que’ princìpi arcani
Che fan miracolosi i linimenti
Per le dottrin de’ savi cataiani,
De’ maomettani e de’ cristian conventi,
Sin che n’ottenne filtri in due colori:
L’un destinato al dentro e l’altro al fuori;
Corvino dà a Brigastio il primo intruglio
E il liquido, ch’è d’un sapor dolciastro,
Gli mette nello stomaco un subbuglio;
Dell’altro Mirabella fa un impiastro
E, tolto lo stivale, il buon miscuglio
Gli spalma ben sul piede già nerastro,
Sicché’l ferito nostro, pur se langue,
Si sente palpitare il piede e il sangue…
Si sente palpitare e si riscuote,
Lo spirito ritorna nelle vene,
Ritorna alle pupille prima vuote
Quella scintilla che la vita ottiene,
Scintilla più colore sulle gote,
Le forze gli si fan sempre più piene
E tal vitalità gli è ritornata
Che già la Morte se ne va sdegnata.
Sentendo che il veleno è stato vinto,
Brigastio si rialza, pur se incerto
Se potrà reggersi sul piede tinto,
E dice: «Splendida fanciulla, certo
Io m’ingannavo quando ero convinto
Di presentarmi a te con qualche merto:
Credevo di salvare te rapita
E invece hai tu salvata la mia vita!»
«Prode Signore» dice la ragazza
«Che per il bene mio tanto rischiasti
E, senza paventare lancia o mazza,
Con questo cavalier mi liberasti
Da chi, tenendo il modo della gazza,
Bramando cose che’l tacer vi basti,
Mi portò quivi senza complimenti,
Strappandomi all’amore de’ parenti,
Le tue parole ben mi fanno mostra
Che quelle gran virtù cavalleresche,
Che sogliono esibirsi nella giostra
E nelle crude attività guerresche,
E sono – aimé – nell’epoca ch’è nostra
Più rare delle cupole arabesche,
In te non hanno omesso d’aver loco
Siccome fa nel ceppo secco il foco.»
E molto il bel parlare si sostenne,
Ciascuno gli altrui pregi commendando,
Con più parole che non perde penne
Il pollo quando lo si va spennando,
Sino al momento che l’istante venne,
Siccome tutti stavano aspettando,
Che la formalità s’ebbe esaurita
E i tre s’incamminarono all’uscita.
Uscita dalla sala insanguinata,
Di morte e sofferenza gran coacervo,
La bella compagnia testé formata
Percorre quel manier torvo e protervo
E trova che han la grotta disertata
Qualunque cameriera e paggio e servo:
Caduto il lor terribile padrone
Han prima alzato il capo e poi il tallone.
Siccome i sette mari viaggiò l’Argo,
Brigastio, il buon Corvino e Mirabella
Percorron la spelonca in lungo e in largo,
Controllano ogni androne ed ogni cella,
Ma, come fosse il luogo sotto embargo,
Non trovano né redine né sella
Né bestia da battaglia, soma o tiro,
O che potesse alcun portare in giro.
Dice Corvino allora «I servi mesti,
Per fuggir meglio od ingrossar bottino,
Hanno involato certo, lesti lesti,
Da queste stalle qual che v’era equino»
Allor disse Brigastio: «Corriam presti
Fino a quel disusato portoncino
Dal quale addentro questo luogo tristo
Non molto tempo or fa n’entrai non visto;
Ivi lasciai, legata a uno spuntone,
Quella giumenta bella, lesta e sana
Con cui per affrontare la tenzone
Giunsi al galoppo alla petrosa piana:
Se pur non può portare tre persone,
Potrà portare ben la nostra dama;
Corvino è forte ed io son risanato:
Faremo il viaggio camminando a lato.»
Gli amici ripercorrono ogni passo
Che già calcò Brigastio nell’entrare
E quando sono giunti al picciol masso
Al qual, per impedirgli di scappare,
Avea leagato l’animale lasso,
Vi trovan due sorprese molto amare:
Un nuvolone nero il cielo adombra,
E della cavallina non v’è l’ombra…
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