All’Ebreo Errante – In death of Leonard Cohen

Avevo, credo, una ventina d’anni, e me ne tornavo dalla mia Pavia universitaria in un crepuscolo di quelli lunghi, che rimangono sospesi, su una vecchia Panda col riscaldamento rotto. In un mangianastri arcaico, avvitato dentro al porta oggetti, girava una cassetta copiata da un CD di un mio zio.
Si trattava di un vecchio miscuglio di pezzi country e folk: Pete Seeger, Johnny Cash, Joan Baez, Don McLean. Coccolavo quelle canzoni da anni, ma solo lì, mentre rallentavo per conformarmi alle viuzze di un borgo passeggero, per la prima volta, il mio grezzo inglese mi permise di capire il testo che stavo ascoltando. Era Suzanne di Leonard Cohen.
Mi innamorai di quei versi senza esitazione, cercandone altri nella stessa notte. La generosità dell’epoca di Napster mi diede un pugno di canzoni, strizzate una alla volta da un 56K.
Mi fece l’effetto di un sole cortese che dissipa con discrezione un buio freddo.
Da allora ha permeato i miei giorni come pochi altri, come un profeta timido che con parole insaziabilmente profonde mi sussurrasse nell’orecchio, giorno dopo giorno, il segreto alchemico per trasformare la tristezza in versi malinconici.
Ed io ho creduto davvero (e non mi persuado ancora del contrario) che nonno Cohen fosse l’Ebreo Errante della leggenda, che attraversa le epoche e le terre con un tesoro di antica saggezza, raccolto tutto di prima mano sulla pelle.
Non sono fatto per le cerimonie e mi affligge il frastuono con cui si ricorda a chi è in partenza il mondo gravoso alle sue spalle, ma a volte è questo che si fa tra poeti: si celebra con l’inchiostro un maestro che posa la penna e si ritira senza chiasso in un regno di sola poesia.
Rispondi